Trattato della beatitudine
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DELLA VERA BEATITUDINE Discorso di Agostino Cesareo sopra le parole dello Apocalisse,
BEATI MORTUI, QUI IN DOMINO MORIUNTUR
SE GLI Huomini, sì come ciascuna cosa che appetiscono la appetiscono come buona, così con maturo discorso considerassero quale cosa è buona e quale è mala. Certamente molte cose che si amano, si odiarebbono et allo incontro molte se ne amarebbono che si odiano. Percioché molte cose, che sono male, paiono buone, e molte che sono buone paiono male. E mentre che non si considerano, non si conoscono e non conoscendosi, le male si tengono stesse volte per buone e si amano e le buone istesse volte si ten-[5v]gono per male e si odiano. Da qui avviene che l’huomo ama sommamente questa vita, principio e causa di ciascuno altro amore terreno, e per contrario ha sommamente in odio la morte, termine e fine di ogni amore di questo mondo. Perciò che la vita appare bella e vaga in vista e la morte appare in vista brutta et horrenda. E mentre che non si considera più oltre, non si conosce bene, che sia la vita e che sia la morte, che di male e che di bene ha la morte e che di bene e che di male ha la vita. Ciascuno tiene la vita per buona et ottima e la morte per mala e pessima e si viene a ponere il sommo Bene nella vita e il sommo male nella morte. Ma come tutti se ingannano [6r] di gran lunga, ne viene chiaramente dimostrato da queste parole venute non da terra ma da Cielo, composte non da sapiente, ma dalla istessa sapienza e dette non da huomo, ma da Angiolo: BEATI MORTUI, QUI IN DOMINO MORIUNTUR . Le prime voci affermano che Beati sono li morti. Beato si dice dalla Beatitudine e la beatitudine si dice dal bene, e da quel bene il quale è sopra tutti gli altri beni. Talché coloro si dicono beati, li quali non sono in vita, ma fuori di vita. Dunque la Beatitudine, il sommo Bene, non è nella vita, ma fuori della vita. Percioché dice: BEATI MORTUI. E che ciò sia il vero, il sommo Bene è quello che è maggiore [6v] di tutti gli altri beni, che contiene in se ogni bene, che non si può agguagliare con altro, che gli è senza alcun male, di cui non si può desiderare meglio, che gli è stabile e perpetuo. Ma noi veggiamo che nella vita non vi è dolce senza amaro, non vi è piacere senza affanno, non vi è riposo senza fatica, non vi è commodità senza travaglio, non vi è alegrezza senza mestitia, non vi è pace senza guerra, non vi è bene senza male, né si può ritruovare ogni bene in uno, non vi è bene che satii, sempre vi è meglio da desiderare; e per grande che sia il bene, gli è un niente a rispetto del bene del cielo. Ogni cosa invecchisce, niuna cosa vi è che non si muti e ciascuna cosa viene meno. E se le cose si di-[7r]scorrono distintamente, li maggiori beni che nella vita essere si riputano, sono questi11 Ms. questi di essere: le Vertù, le Scienze, la Sanità, la Bellezza, la Ricchezza, la Potenza e le Dignità. E veramente tutti questi sono beni percioché DIO Ottimo Massimo gli ha ordinati per beni, e li distribuisce come beni a gli huomini, sì come ne riferisce la scrittura nel principio della creatione di tutte le cose: Viditque DEUS cuncta que fecerat et erant valde bona . E parlandone particolarmente di ciascuno l’essere gli è bene per li beni, che si godono essendo. Le vertù sono beni, percioché fanno l’huomo amico di Dio. Le scienze sono beni, percioché danno piacere e consolatione all’animo. La sa-[7v]nità gli è bene, percioché fa godere li beni della vita. La Bellezza gli è bene, percioché fa l’huomo gratioso a gli altri huomini. Le Ricchezze sono beni, percioché fanno vivere l’uomo commodamente. La Potenza gli è bene, percioché fa conservare li beni che si hanno e fa acquistare li beni che non si hanno. E le Dignità sono beni, percioché fanno l’huomo di maggiore stima degli altri. Ma tutti questi beni riceverno mancamento e furono mescolati con il male, dopo che li primi Padri di tutti incorsono nel gravissimo errore. Percioché l’essere che era tranquillo e perpetuo si ridusse a momentaneo e misero. Le vertù che erano pure et ardenti, furono [8r] macchiate e gelate dal vitio. Le Scienze che erano chiare e verissime, diventarono oscure et incerte. La Sanità che era incorrotta e continova si distemperò da varie infermità. La Bellezza che era vaga et immutabile cominciò a guastarsi e mutarsi. Le Ricchezze che erano molte e sicure restorno poche et instabili. La Potenza che era grande et insuperabile, divenne picciola e di poca resistenza. E le Dignità che erano grandi e sopreme diventarono menome e basse. L’essere era tranquillo, percioché era nel colmo di ogni perfectione fra li piaceri e le delitie del paradiso terrestre, ove si godeva ogni bene della terra senza sospettare nonché patire alcun male. [8v] Era perpetuo, percioché era ordinato alla perpetuità e poteva non mancare mai, se l’huomo non havesse errato. Ma hora è misera, percioché gli è pieno di molte miserie, di fatiche, di travagli e di guai. E gli è momentaneo, percioché dura brevissimo tempo, viene meno in un momento, da momento a momento si muta, né mai sta fermo in un medesimo stato e passa via più veloce che una ombra. Come diceva quello huomo pacientissimo: Homo natus de muliere brevi vivens tempore repletur multis miseriis, qui quasi flos egreditur et conteritur et fugit velut umbra et numquam in eodem statu permanet . Le vertù erano pure et ardenti, percioché erano nello [9r] statio della innocentia e non erano state guaste da alcuno vitio. Ma hora, benché si ritruovino assai grandi in alcuno, non però sono senza la compagnia del peccato. Con ciò sia cosa che septies in die cadit iustus e da che fu creato il mondo insino a questo tempo, quattro persone solamente sono visse senza peccato: per natura CRISTO e per gratia la Beata Vergine Sua madre et il Figliuolo di Lisabetta, ma non in così eccellente grado di santità come questa et inanti di loro Geremia, ma in minor grado della santità di questo. Percioché di sua natura: Non est qui faciat bonum, non est usque ad unum cioè esso CRISTO. Le Scienze erano chiare e verissime, percio-[9v]ché non cadeva ambiguità, né dubbietà nelle cose, ma era una manifesta certezza di tutto. E si sapevano per natura e non per artificio. Ma hora sono oscure et incerte, percioché ogni cosa è quasi dubbia et ambigua, né vi è cosa veruna che non sia disputabile, talché difficilmente si può sapere alcuna cosa. Molto più senza comparatione sono le cose che non si fanno che quelle che si fanno. E quelle poche, le quali si fanno, se imparano con gran fatica con lungo tempo e con contiuno studio. Là onde, colui che dal mondo si tiene essere stato gran savio nel suo tempo, disse di se quelle gran parole: Hoc unum scio quod nihil scio. Egli per certo fu gran savio per cagione che [10r] seppe molte cose più degli altri, ma fu molto più gran savio per questo che seppe essere niente, quanto sapeva. Anzi che questa fu la sua vera sapienza, il sapere che sapeva niente. Percioché benché si sappia molto, nondimeno si sa niente a rispetto della vera sapienza, atteso che il sapere di questo mondo gli è una pazzia appresso di DIO. Sapientia huius mundi stultitia est apud DEUM . La Sanità era incorrotta e continova, percioché l’huomo non si ammalava giamai. Con ciò sia cosa che li cibi de quali si nodriva erano di somma perfectione e l’aria gli conferiva da ogni parte temperata e sincera, né si truovava alcuna cosa che havesse potuta essergli nociva, ma hora è molestata da seicento geni di morbi oltra la vecchiaia [10v], morbo senza rimedio, se inferma per ogni picciolo accidente e con difficoltà poi si viene a ristorare, atteso che i cibi non sono di quella perfectione e l’aria non ha quella temperanza, né quella sincerità di prima, né si sanno tanti rimedii, quante si ritruovano indispositioni. E gli è impossibile cosa a essere perfecta e continova sanità in alcuno. Per il che la nostra massa è somigliata a cose che facilmente si corrompono. Nonne sicut lac mulsisti me et sicut caseum me coagulasti ? La Bellezza era vaga et immutabile, percioché non ritruovandosi né infermità né vecchiaia, dalle quali havesse potuta essere guasta, fioriva in ogni stagione e l’huomo sempre si manteneva giovane e fresco. Ma hora per le infermità viene a mu-[11r]tarsi e per la vecchiezza si viene a perdere in tutto. E gli è veramente a guisa di un fiore, il quale hor’hora farà vago e bello et hora farà languido e secco: Et quasi flos egreditur et conteritur . Le Ricchezze erano molte e sicure, percioché l’huomo era padrone di tutti li beni della terra, gli haveva senza fatica e possedeva senza fastidio, non gli mancava quello che gli facesse di mestiero, haveva ciò che voleva, gli abbondava quanto desiderava e di niuna cosa conosceva povertà. Oltra di ciò era sicuro di mai non perdere cosa veruna, se fosse stato obediente al magno DIO, che gli le haveva donate. Ma hora sono poche et instabili, sono poche a rispetto delle povertà, di quanto più se ne possono havere e di quanto [11v] più se ne desiderano sempre. Percioché il desiderio delle ricchezze sempre cresce quanto crescono le ricchezze. Si acquistano con sollecitudine, con travagli, con fatiche e con stenti e si possedono con pericoli, con pensieri e con sospetti. Sono instabili, percioché quello che volgarmente è detto Fortuna hora le da a chi le ha tolte et hora le toglie a chi le ha date, né si possono lungo tempo possedere da alcuno. La rugine le consuma, la tignuola le rode e li ladri le rubbano. Erugo et tinea demolitur et fures effodiunt et furantur , diceva CRISTO. Il superiore le toglie, le guerre le fanno perdere e sono sottoposte a incendii, a rovine et a naufragi. La potenza era grande et insuperabile, per[12r]cioché l’huomo poteva sopra tutti gli animali, né tra di essi era alcuno che gli havesse potuto resistere e con essi poteva, quanto voleva, e poteva con le forze del proprio corpo senza haver bisogno di alcuno artificio. Ma hora è piccola e di poca resistenza, percioché gli è mancato il vigore delle membra per la imperfectione del nodrimento e per la distemperanza dell’aria e gli è indebolita la fortezza dell’huomo e non può più sopra tutti gli animali. Con ciò sia cosa che vi sono molti animali, li quali non patiscono essere dominati da lui, anzi che li resistono e lo vincono di leggiero e possono tanto sopra degli huomini che se non stessero insieme ridotti nelle Città e nelle ville, appena li lasciarebbono vivere. E se pur vi sono [12v] alcuni huomini, li quali sono molto potenti sopra gli altri huomini e sopra gli animali, non di meno non sono potenti per se soli, ma per altri, di modo che la loro potenza è nulla, essendo nelle mani di altrui. Percioché sì come gli la prestano, così gli la possono negare. E niuno è tanto potente per se solo che molti insieme non siano più potenti di lui. Non si ritruova alcuno tanto potente che un altro non si possa fare più potente di esso e che la potenza degli altri non diminoisca la sua. E niuno è così sicuro della sua potenza che la potenza d’altrui non lo tenga in timore. La potenza della propria persona si perde per le infermità e per la vecchiezza, cose che vivendo non si possono fuggire. La potenza del-[13r]li vassalli si perde per la ribellione, come spesse volte suole accadere. La potenza degli amici si perde per la adversa fortuna, la quale è sempre in ruota con la propitia. E la potenza delle ricchezze si perde, perdendosi le ricchezze in tanti già detti modi. Là onde nella scrittura si esclama: Ubi sunt Principes gentium, et qui dominantur super bestias, qua sunt super terram; qui argentum thesaurizant et aurum in quo confidunt homines? Exterminati sunt . Ove sono, ove sono tanti Imperadori, tanti Rè, tanti Prencipi, e tanti altri, che erano potenti di gente, di animali, di oro e di argento sopra della terra? Certo sono pur distrutti, non si ritruovano già più e quelli che non erano, sono, e sono in loro luogo et [13v] alii loco eorum insurrexerunt . Non vi è potenza al fine che non si muti e venga meno et insino le potenze dell’anima si perdono alcuna volta per la pazzia. Le Dignità finalmente erano grandi e sopreme, percioché l’huomo resideva nel principal luogo della terra, li cieli gli influivano totalmente bene, la terra gli prestava continova obedienza e gli animali tutti lo riverivano. Non era sottoposto ad alcuna fatica, era esente dalla morte et era fuori di ogni miseria. Ma hora sono menome e basse, percioché l’huomo si ritrovava scacciato da quel dignissimo luogo, il suo corpo è dominato dalli cieli e dalle stelle, la terra non gli obedisce, se non vi sparge sopra sudori [14r] e lagrime, gli animali infino a certi menomi generati da putrefactione e da sterco senza havergli alcun rispetto, li danno continova molestia, se mangia, se dorme e se camina e se perviene ad alcuna gran dignità o alla prima dignità del mondo non è però senza fatica. Gli è pur sottoposto alle miserie della humana carne, di soffrire fame e sete, di patire caldo e freddo, di infermarsi, e di farsi vecchio, di essere travagliato dalla peste e dalle guerre e di patire tutte quelle cose che ciascuno vilissimo huomo patir suole, oltre di ciò è sempre sotto il giogo della morte, appresso di cui non vi è differenza, né rispetto di conditione e di grado. Per il che dice il profeta: Omnis caro fae-[14v]num et omnis gloria eius ut flos agri; et siccatum est faenum et cecidit flos, quia spiritus Domini insufflavit in eum . In somma, si può ben dire da tutti: Universa vanitas omnis homo vivens . O pestifero peccato o peccato senza modo biasimevole che fu quello de’ nostri primi Genitori, poi ché ne distimperò tanti beni con tanti mali. Tutti questi beni della vita, quali essi si siano, si godono essendosi in vita solamente; talché tanto durano a ciascuno, quanto gli dura la vita. Ma essendo la vita piena di tanti mali, mutandosi così di leggiero e durando tanto breve spatio, che beatitudine può essere in lei? Certamente per essere piena di male, niuno bene si può godere [15r] senza male. Per essere mutabile, non si può godere alcuno bene continovamente. E per essere brevissima poco o niente si può godere di ciascuno bene. E che sia tutta piena di mali, non ha bisogno di argomenti a pruovarsi. Percioché chi non sa le gravi stenti che mai non vi vengono a fine? Le languide infermità che vi sono continove? Le fiere guerre che non vi si terminano in alcun tempo? Le impetuose afflictioni che vi sopragiungono a ogni hora? Gli aspri dolori che vi sono infiniti? Le rie passioni che sempre vi nascono? E le misere angustie dalle quali è circondata da ogni lato? Chi non sa ancora come abonda di casi e di pericoli in mare et in terra, di acqua, di fuoco, di ferro, di ve-[15v]leno e di sasso, di rovina e di tuono? Veramente dunque: Replatur multis miseriis . Che si muti di leggiero ciascuno che vive, lo isperimenta, percioché si muta dalla infantia alla fanciulezza, dalla fanciulezza alla adolescenza, dalla adolescenza alla gioventù, dalla gioventù alla virilità, dalla virilità alla vecchiezza, dalla vecchiezza alla decrepità, e finalmente dalla decrepità alla morte. Si muta dalla sanità alla infermità, dalla robustezza alla debilità, dalla alegrezza alla mestitia, dalla piacevolezza alla ritrosità, dal bene al male. E quanto più dura, tanto più se ne va da male in peggio. Percioché li sensi si vanno ingrossando, vannosi torcendo [16r] le membra, la vista va mancando, si va indurando l’odito, vanno cadendo li denti, il vigore si va perdendo et al fine si viene a essere increscevole a se medesimo nonché ad altrui. Da qui avviene che suole essere chiamata Vento. Memento mei DEUS, quia ventus est vita mea . Percioché gli è instabilissima come il vento. Ecco dunque come: Nunquam in eodem statu permanet . Che sia brevissima non vi è alcuno che lo possa negare, percioché da tutti manifestamente si vede, oltra che la scrittura né lo insegna che il suo termine comunalmente gli è di settanta anni et in alcuni bene complessionati gli è di ottanta e, se pur si passano gli ottanta, quello che se ne passa è più tosto [16v] morte che vita, passandosi in fatica et in dolore: Dies annorum nostrorum in ipsis septuaginta anni, si autem in potentatibus octuaginta et amplius eorum labor et dolor . Né tucto questo corso di vita si può priopriamente dire essere vita, ma appena la terza parte di esso. Percioché la mità quasi se ne dispensa al dormire, la qual parte è somigliata alla morte. Un’altra parte della infantia, la quale è una vita imperfecta, essendo priva di conoscimento e di giudicio et un’altra parte è della vecchiaia, la quale è fine di vita e principio di morte. Oltre di ciò vi è il tempo delle infermità e delle tribulationi, il quale parimente si può computare a morte. Hora che [17r] sono settanta anni, ovvero ottanta, di così fatta vita mortale, le quali se ne volano così frettolosamente che al fine pare che non siano stati giamai veramente a rispetto del tempo che è fatto e di quello che ha da essere. (Se bene si considera) questa vita non è se non un picciolo momento. Il momento è la più menoma parte del tempo, di maniera che il tempo della vita è il più menomo che essere possa. Là onde la vita sempre è somigliata a cose che facilissimamente vengono meno, che passano velocissimamente e che durano brevissimo tempo. Gli è somigliata al fiore che dura da matino al vespero: Qui quasi flos egreditur et conteritur , e quello: Omnis gloria eius tanquam flos agri . E quello di Gregorio [17v]: Quid enim sunt homines in mundo, nisi quidam flores in campo ? Gli è somigliata al fieno che prestamente si disperge: Omnis caro faenum . E quello: Tanquam faenum velociter arescent . Gli è somigliata alla rugiada che dura da meza notte all’apparire del sole, et quasi ros mane pertransiens. Gli è somigliata alla spuma che si disfà in uno momento. Et quasi spuma qua a procella dispergitur . Gli è somigliata alla favilla che in uno istante si estingue. Fortitudo nostra ut favilla stuppa . E quello: Comparatus sum favilla . E quell’alora: Et sicut favilla quae cito dispergitur. Gli è somigliata al fumo et al vapore che in breve spatio svanisce: Defecerunt sicut fumus dies mei . E quello [18r] di Giacopo: Quid est enim vita nostra, nisi vapor ad modicum transiens ? Gli è somigliata all’ombra che fugge velocissimamente et fugit velut umbra . E quello: Dies eius sicut umbra praetereunt e quell’altro: et sicut umbra, quae declinat, ablatus sum . Gli è somigliata all’herba che da verde si fa secca in uno giorno et mane sicut herba transeat, vespere decidet, induret et arescat . Et tanquam olera herbarum cito decident . Gli è somigliata alla tela del ragno che da ogni poco fiato si guasta. Anni nostri sicut aranea meditabuntur . Gli è somigliata altra cera che si dista per un poco di caldo; sicut cera, quae fluit, auferentur, supercecidit ignis et non viderunt solem . Gli è somigliata alla ari-[18v]stola, cosa di brevissima essenza et stipulam siccam persequeris . Gli è somigliata alla foglia et alla polvere menata dal vento. Contra folium, quod vento rapitur ostendit potentiam tuam . E quello: Et sicut pulvis ante faciem venti. Finalmente in ogni parte della scrittura gli è chiamata fragilissima, fugacissima e vanissima. Parce mihi Domine nihil enim sunt dies mei . Breves dies hominis sunt . Dies mei breviabuntur. Dies mei transierunt . Nunquid non paucitas dierum meorum finietur brevi? De mane usque ad vesperas finies mei . Dunque con ragione fu ancora detto da Gioppe: Brevi vivens tempore . La vita pare lunga se si passa con dispiacere, e se si [19r] passa con piacere, pare breve, di modo che il bene della lunghezza ha la infelicità del dispiacere. Il bene del piacere ha la infelicità della brevità. Il vivere con dispiacere gli è uno lungo morire. Talmente che per niuna via et in niuna parte vi si ritruova beatitudine. Per le quali cose è da concludersi che la Beatitudine non si ritruova in alcuno modo in questa vita e per conseguentia che niuno mentre che gli è in essa, può essere beato. E però dice la sentenza: BEATI MORTUI. Morti che siamo, possiamo ben essere beati. Percioché il sommo Bene gli è nell’altra vita, alla quale piacendo al sommo Padre e convenendo alli meriti nostri, vi possiamo passare, dopo [19v] che siamo fuori da questa e non altrimenti. Niuno mortale vi è mai stato beato in queste parti, né alcuno vi potrà giamai essere beato, essendo la vera Beatitudine in Cielo. Tra quanti fin hora vi sono stati nati di donna, eccetto CRISTO, e la gloriosissima Vergine Sua Madre, Giovan’ Battista è stato di tutti il maggiore e non dimeno mentre egli era in questa vita, era il menomo di quanti ne erano nel Cielo. Amen dico vobis (disse esso CRISTO) non surrexit inter natos mulierum maior Joanne Baptista, qui autem minor est in Regno Caelorum, maior est illo . Se essendo in terra era il menomo di quanti ne erano in Cielo, dunque che beatitudine [20r] era la sua in questa vita? Certo non si può dire se non che era sicuro di havere la felicità del Cielo dopo la morte. Mentre visse fu beato in speranza solamente e dopo morto divenne beato in effetto, essendo trasportato alla celeste vita. E già tutti coloro che nella vecchia e nella nuova scrittura sono chiamati beati, essendo essi in terra, se intendono beati in speranza della Beatitudine del Cielo. Discorransi tutte quelle beatitudini predicate da CRISTO, che si ritruovarà, che nella fine conclude, la vera beatitudine essere nel cielo. Le ultime sue parole sono queste: Gaudete et exultate quoniam merces vostra multa, overo, copiosa est in Caelis . La conclusione è dunque, che la mercè è [20v] molta e copiosa che gli è il medesimo, è nel Cielo e non in terra. Merces vestra multa, overo, copiosa est in caelis. Overo che la molta mercè, cioè, la maggiore delle altre è nel Cielo. Percioché il Signore DIO, per la sua infinita bontà, in questa vita ne suole dare la mercè delle cose terrene, nelle quali non sta beatitudine e nell’altra vita ne suole dare la mercè delle cose celesti, dove è la beatitudine. La mercè dunque delle cose del Cielo gli è la molta e copiosa mercè a rispetto della mercè delle cose della terra. Quoniam merces vestra copiosa, cioè la più abbondevole e la maggiore di tutte, che gli è il sommo Bene; est in caelis, cioè nel cielo empireo, il quale è so-[21r]pra tutti gli altri cieli e contiene in se tutti li cieli. Con ciò sia cosa che ivi è la stanza di DIO per somma Maestà, per visione chiara e per speciale amore; et esso DIO contiene in se ogni bene, esso istesso è ogni bene, il suo aspetto è il sommo Bene, dinanti di lui si gode la vera beatitudine, la quale satia ogni desiderio di bene e contenta appieno gli animi di ciascuno, non può mutarsi per alcuno accidente, né può venire meno in alcun tempo. Gli è un bene infinito in quanto alla quantità et in quanto all’essere. Ma chi, mentre è avuolto in questo oscuro lembo di terra, potrebbe mai compiutamente discernere et isplicare che specie, che qualità e che quantità sia di [21v] questo bene? O più e più volte beati coloro, li quali si ritruovano nella eccelsa stanza di DIO. Beati qui habitant in domo tua, Domine, in seculum seculi laudabunt te , diceva il Profeta. Noi da qui possiamo considerare che essi stando dinanti alla serenissima e splendidissima faccia di DIO, godano luce senza tenebre, che riscaldandosi nella sua ardentissima Carità godano pace senza guerra, che vivendo nel grembo della sua eterna et immensa Maestà, godano vita senza morte e che ritruovandosi nella dolcissima et alegrissima compagnia degli Angioli in virtù di esso DIO, godano piacere senza dolore. Oltra di ciò possiamo discorre-[22r]re, se qui in terra lo splendore del sole rende a noi grande alegrezza, quanto maggior alegrezza deve rendere a loro in Cielo lo Splendore di DIO che gli è il Sommo sole? Se a noi le stelle paiono molto belle vedendole sopra il capo, quanto più belle devono parere a loro vedendolesi sotto li piedi? Se a noi la vista del Cielo giova così da lungi, quanto più deve giovare a loro essendovi di sopra? Se noi, mentre pensiamo all’essere di DIO, restiamo consolati, quanto più consolati devono essere essi che lo veggono continovamente? Se a noi tanto diletta il conoscerlo per gli effetti, quanto più deve dilettar loro il conoscerlo per la vera essenza? Se noi diventando famigliari della corte di uno Rè, ne teniamo glo-[22v]riosi, quanto più gloriosi sono essi che sono famigliari della Corte di DIO, il quale è il Rè di tutti li Rè? Se noi ne reputiamo felici, possedendo uno corrottibile tesoro della terra, quanto più felici sono essi, possedendo lo immarcescibile tesoro del Cielo? BEATI igitur, BEATI MORTUI. Percioché la morte è la via, la porta, il modo, et il mezo per il quale si va a questo bene. La morte è la separatione dell’anima dal corpo. Bisogna dunque che lo spirito si separi dalla carne, che l’anima lasci il corpo per poter pervenire a tanta felicità. Percioché non si può sallire tanto in alto con il peso della massa terrena. Ma a quelli che hanno posta ogni lor cura nel fan-[23r]go, pare ben una dura sentenza et uno paradosso molto strano il dire che il sommo Bene sia nella morte, atteso che la morte gli priva delle cose di questo mondo, gli discommoda degli agi terreni, gli interrompe li loro disegni e gli apporta dolore e timore. E veramente la morte, tutto che sia causata da male, cioè dal peccato di Adamo, e si è una delle imperfettioni dell’huomo hereditate da esso Adamo per il suo peccato (percioché sì come per esso il peccato entrò nel mondo, così per il peccato vi entrò la morte) nondimeno gli è mala e gli è buona. Gli è mala la morte, quando si fa fuori del Signore, percioché allhora gli è uno abisso di miseria, gli è uno entrare a una carcere più oscura, gli è uno aumento di [23v] pianto, gli è uno aggiungere di dolore a dolore, anzi di infiniti dolori, gli è una perdita di ogni bene, gli è una rovina irreparabile, gli è un traboccare ad asprissime pene: Ibi erit fletus et stridor dentium . E finalmente gli è un precipitio a morte eterna: Quia in inferno nulla est redemptio . Gli è buona la morte, quando si fa nel Signore, percioché allhora gli è porto di tutte le miserie, gli è alleviamento di ogni affanno, gli è rimedio di ogni dolore, gli è fine di ogni pianto, gli è riposo delle fatiche, gli è uscire di prigionia, gli è termine di ogni male, gli è un passaggio a miglior vita, gli è un guadagno di uno bene infinito e, finalmente, gli è la vera Beatitudine che abbiamo detta.
[24r] BEATI MORTUI, QUI IN DOMINO MORIUNTUR . La morte ha ben in se dolore e timore: Circumdederunt me dolores mortis . Timor mortis conturbat me . Né solamente essa morte, ma l’ombra, la imagine, il nome e la memoria della morte apporta affanno e spavento. O mors quam amara est memoria tua . Sente dolore il corpo e l’anima. Il corpo per l’aspro moto della infermità e per la corrottione di se stesso. Perché morendo, si altereggia, si affanna, si diminoisce e si consuma. E l’anima, per disciogliersi e separarsi dal corpo, sua stanza, suo amico e suo compagno. Percioché separandosi da esso, si attrista, si crucia e si perturba e sente insieme mestitia per lasciare li beni di questo mon-[24v]do. Teme l’anima, partendosi dal corpo, percioché si vede dinanti apparecchiate due strade, l’una del Paradiso e l’altra dello Inferno. E dubita di smarire il Paradiso ove è il sommo Bene e di deviare allo Inferno, ove è il sommo male. Il dubbio dunque di perdere la Beatitudine e di acquistare la dannatione causa il timore e lo spavento all’anima. Ma quelli che muoiono nel Signore, non sentono dolore né timore. Percioché la conoscenza e lo amore che hanno del vero bene non li fa curare delli beni di questa vita. Il gran bene, il quale si veggono apparecchiato, non fa loro sentire dolore né intrinseco né estrinseco. Et il vedersi insieme con il Signore non fa loro have-[25r]re alcuna paura. Nam etsi ambulavero in medio umbrae mortis, non timebo mala; quoniam tu mecum es . Allo incontro quelli che non muoiono nel Signore, patiscono tutti questi dolori e sentono un timore infinito, percioché veggono il loro danno eccessivo et eterno. Peccantem me quotidie et non penitentem timor mortis conturbat me. Quia in Inferno nulla est redemptio . Oltra di ciò è da credere che il Signore a quelli che muoiono in esso, come a suoi carissimi amici per loro maggiore consolatione gli faccia assistere gli Angioli a fargli festa. E che a quelli che non muoiono in esso, come a suoi nemici, per loro maggiore pena, permetta che li Diavoli gli si appresentino a dargli molestia. E già si [25v] legge da alcuni santi che nello rendere del loro spirito si sono aperti li Cieli e veduti gli Angioli in schiere, vestiti di veste alegre e di giocondissimi aspetti, stare loro intorno. E vi si sono oditi dolcissimi concerti e soavissime armonie. E, per contrario, si legge di alcuni reprobi che nel mandare della loro anima fuori si è sfessa la terra in abisso. E sono state intorno di loro viste horrendissime figure et intesi spaventevolissimi stridi e strepiti. Per il che, quello che si suole dire, la morte essere l’ultima delle cose terribili, gli è ottimamente e bellamente detto, purché se intenda a questi due modi. In buona parte per quelli che muoiono nel Signore, percioché a quelli la morte [26r] viene a essere fine di tutte le cose terribili, togliendoli dalli terrori del mondo e dello Inferno e conducendoli al Paradiso. Et in mala parte per quelli che moiono fuori del Signore, percioché a quelli la morte è la più terribile cosa che si possa sentire, abbissandoli alli terrori tartarei. Così si deve parimente dire di quel nome, LAETUM, impostole da’ Latini, percioché si può intendere per il senso diretto e per il contrario. Et il diretto dare si deve alla morte di quelli che muoiono in CRISTO, essendoli tal morte veramente cosa lieta. Et il contrario alla morte di quelli che non muoiono in CRISTO, essendoli tal morte non cosa lieta, ma mesta, come habbiamo detto. Beati dunque li [26v] morti che muoiono nel Signore. Nel Signore cioè in CRISTO, il quale è il vero Signore et il Signore di tutti li Signori: Ipse est Rex Regum et Dominis Dominantium . Dice nel Signore, cioè nella sua Fede, sotto l’ombra delle sue ali, in sua gratia. Li morti dunque, li quali muoiono nel Signore, sono beati overo li beati sono li morti li quali muoiono nel signore, percioché niun’altro è beato e niuno può essere beato se non chi è morto e muore nel Signore. Gli è dunque necessario di morire per poter havere la Beatitudine e gli è necessario di morire nel Signore per haverla. Percioché in lui e per lui si viene ad acquistare. Esso è la via [27r], la verità e la vita. Ego sum via, veritas et vita , disse di sua bocca. Colui è nel Signore, il quale camina per la via della sua legge, obedisce a suoi mandati, serva li suoi consigli, adimpisce il suo volere e si unisce con il suo corpo e con il suo sangue. Egli è nel Signore et il Signore è in lui sì come se ha da lui medesimo: Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo . Chi non è con lui è contra di lui. Qui non est mecum adversum me est . E chi è contra di lui, conseguentemente si deve tenere infelicissimo. In conclusione chi non muore nel Signore, non può essere beato. BEATI enim mortui, QUI IN DOMINO MORIUNTUR . Là onde il morire che si fa fuori del Signore, si deve dire [27v] “morire di mala morte” e non di morire di spada o di altra cosa violenta. Quella è la mala morte, per cui si perde il sommo Bene. Così la morte gli è buona e gli è mala. IN DOMINO MORIUNTUR. Percioché non basta essere nel Signore nel principio e nel mezo e nella vita solamente, ma bisogna ancora essere nel Signore nella fine e nella morte che gli è il fine della vita. Molti cominciano a caminare per la via del sommo Bene e poi nel mezo si restano. Molti passano in mezo ma non giungono al fine. Questi vivono nel Signore, ma non vi muoiono. E però non possono essere beati. Così tutti corrono. Ma uno è quello che guadagna il pregio, come dice lo Apostolo: Omnes quidem currant, sed unus acci-[28r]pit bravium , cioè quello che perviene alla meta. Gli è dunque necessario a chi vuole essere beato di operare bene e di perseverare, al bene operare insino allo estremo. Qui enim perseveraverit usque in finem, hic salus erit . Questo sentimento ha ancora la nostra sentenza per questa altra via. Percioché quella voce MORTUI, la quale significa il tempo passato, dinota il passato dopo la morte et il passato insino alla morte. Dell’uno viene a dire quello che già si è dichiarato, che quelli, li quali hanno già scambiata la vita con la morte nel Signore, sono beati. Dell’altro viene a dire che quelli sono beati, li quali mentre hanno visso, sono stati morti al mondo, cioè, che l’hanno dispregiato, e non [28v] sono stati immersi nelle sue vanità. E che così morti al mondo MORTUI finiscono la loro mortificata vita nel Signore. IN DOMINO MORIUNTUR. E nell’uno modo e nell’altro che se intende, sempre viene ad havere il medesimo fine. Dovemo, vivendo nel mondo, essere morti a lui, per potere, morendo ultimamente a lui, essere vivi nel Cielo. Percioché chi è morto al mondo, è vivo al Signore. E però terminando il vivere in esso, viene a farsi beato. Ma chi è vivo al mondo, è morto al Signore. E però non terminando il vivere in esso, non viene a farsi beato, come erano quelli, delli quali esso disse: Sinite mortuos sepelire mortuos suos . Erano morti nella fede a esso Signore et erano vivi nelle ope-[29r]re al mondo. Non si può piacere a DIO et al mondo insieme. Nemo potest duobus Dominis servire, DEO22 Ms. DIO et Mamonae . E però è necessario di odiare il mondo e di amare DIO; che questo vuol dire in effetto in questa vita essere morti al mondo e vivi a DIO, et essere morti nel peccato e vivi nelle buone operationi. E finalmente è necessario, vivendo, morire in pacienza, per poter morendo vivere in gloria. BEATI MORTUI, QUI IN DOMINO MORIUNTUR . Veramente questa santa voce venne dal Cielo. Percioché da altro luogo non poteva venire una così sonora voce, una così alta sentenza, come è questa. Audivi vocem de Caelo , riferisce Giovanni. Né senza mistero gli fu [29v] ordinato che l’havesse scritta. Percioché dice, prima della sentenza haver odito, dicentem mihi, scribe, BEATI MORTUI etc. Gli fu ordinato lo scriverla a futura memoria de’ Mortali, accioché sapessero la verità delle cose; accioché non si facessero ingannare dal mondo; et accioché fosse loro manifesto il modo di farsi beati. Con ciò sia cosa che tre cose principali ne vengono brevemente dimostrate da questa sentenza. La prima è che il sommo Bene non è in questa vita, mentre che dice BEATI MORTUI. La seconda è in che modo si acquista, mentre che dice: QUI IN DOMINO MORIUNTUR. La terza è in che campo si acquista, mentre che dice [30r]: MORTUI et MORIUNTUR, delle quali già è stato detto fin’hora. Et in queste tre cose si fonda tutta la legge di CRISTO nostro Signore. Il conoscere il sommo Bene è per Fede. L’osservare il modo di acquistarlo è per mezo della Carità. Et il ricordarsi del tempo di acquistarlo è per la speranza. Questi sono li fondamenti della legge. Per il che al vero Cristiano è necessario di sapere, di si ricordare e di osservare questa sentenza. Tutti gli errori, li quali si sogliono fare dagli huomini, si causano perché non sanno le cose che si contengono in essa, e se le sanno, non se ne ricordano e, se pur se ne ricordano, non le osservano. Percioché se sapessero che il sommo Bene è in DIO e che DIO [30v] è nel Cielo, amarebbono sommamente DIO et il Cielo e non le mondane cose et il mondo. Se si ricordassero del tempo nel quale si acquista che gli è nella morte, ciascuno starebbe ben preparato in ogni tempo. Se osservassero il modo, con il quale si acquista, che gli è l’essere con il core e con le opere nel Signore, mai non si commetterebbe alcun male e così tutti passarebbono alla vita felice. Che maravigliosa sentenza che è questa. Da ogni lato risuona morte et in se ha tanto gran spirito di vita. Vera sentenza degna di essere scritta in oro. Così piacesse a DIO, sì come gli piacque di publicarla per tutti, facendo dire dall’Angiolo indefinitamente: BEATI MORTUI, QUI etc. [31r] che tutti la apprendessero, accioché non si facesse mai cosa mala e ciascuno divenisse beato. Essa prima ci invita con dolcezza antiponendoci la Beatitudine, BEATI. Poi ne continova con amaritudine traponendoci la morte, MORTUI. Percioché: Angusta porta et arcta via est, qua ducit ad vitam . Ma la fine ci conclude con consolatione dicendo, IN DOMINO. Percioché il pietosissimo e dolcissimo Signore ne addolcisce ogni amaro e ne rimuove qual si voglia angustia. Essa non solamente ne indirizza ad acquistare il sommo Bene della celeste vita morendo, sì come si è detto, ma ancora ne dispone ad havere li maggiori beni di questa vita vivendo, che sono le virtù e le scienze. Percioché [31v] avvertendosi che ne habbiamo a ritruovare nel signore nel tempo della morte, ne insegna haver Prudenza informandoci a essere nel Signore, ne insegna haver Giustitia, assicurandoci della morte, ne insegna haver Fortezza e dimostrandoci la Beatitudine con la morte, ne insegna haver Temperanza. Mentre che ne accorge che il sommo Bene è quello del cielo, ne fa conoscere il bene et il male di tutte le cose. E mentre che ne conduce alla cognitione di DIO e della sua gloria, ne fa a sapere il vero et il falso di tutte le scienze. Chi dunque vuol confondere ogni gran dottrina, fondisi sopra questa sentenza. E per finire: questa è la regola della vita e della [32r] morte dell’huomo, per la qual cosa ciascuno la dovrebbe ben discorrere con lo intelletto, ritenerla seco con la memoria, amarla con la volontà et esseguirla con tutte le forze. Ma ogni huomo che ha desiderio di acquistare il sommo Bene (sì come si deve havere da ciascuno) deve forzarsi di stare ben in cervello nello estremo punto della morte. Percioché gli è uno difficilissimo e pericolosissimo passo. Gli è difficilissimo percioché si fa in uno attimo di tempo, in uno esalare di spirito, in uno chiudere de’ occhi, e bisogna accertare quello brevissimo punto a essere nel Signore. Gli è pericolosissimo, percioché sì come si può passare al Cielo, così si può traboccare allo Inferno. O che strettezza di ponte o che angu-[32v]stezza di via o che pericolo pericolosissimo da uno eterno bene a uno infinito male, da essere salvo a perire totalmente. Però in quel passaggio è ben necessario che l’huomo si tenga forte, che camini diritto, che non pona il piede in fallo, che faccia un’animo grande e che stia strettamente unito con il Signore, altrimente gli è perso. Questa difficoltà e questo pericolo in acquistare la Beatitudine del Cielo hebbe causa dal peccato del primo huomo. Percioché egli havendosi insuperbito contra di DIO suo Signore e benefattore, non meritò di havere lo andare facile e sicuro alla sua felicissima stanza. E questo egualmente avviene a noi per ragione che trahemo l’origine [33r] da lui con la macchia dello istesso peccato. Oltra di ciò è secondo la natura delle cose, che quanto più sono importanti, tanto più hanno di difficoltà e di pericolo in acquistarsi. E non si può guadagnare honorata corona, se non si combatte fortemente e con gran rischio. Ma perché niuno può sapere quando ha da essere soprapreso dalla morte, per farsi ritruovare nel signore fa di mestiero a ciascuno di sempre stare vigilante et attento e di mai non disgiungersi punto da lui, come egli medesimo, sua gran mercè, ne ha lasciati avvertiti: Vigilate et orate quia nescitis diem nequem horam . In quanto all’essere, la morte è ben certa: Statutum est hominibus semel mori . Ma gli è incerta quanto al luogo, al modo et al [33v] tempo. E lo sa DIO solamente. Numerus mensium eius apud te est . Queste tre cose non si possono sapere dagli huomini. Sappiamo ben tutti che habbiamo a morire, ma non sappiamo dove, come e quando. Non si può da noi sapere se habbiamo a morire di estate o di verno o di mezo tempo, se in questo anno o nell’altro, se in questo mese o in quello, se hoggi o domani, se di notte o di giorno e se in questa hora o in questo punto e se habbiamo a morire più tosto in una età che in un’altra, se nella fanciullezza o nella gioventù o nella vecchiaia. Non si può da noi sapere di che modo habbiamo a morire, se di lunga o di breve infermità o di morte subitana, se [34r] per corso della natura o per caso violento, se di acqua o di fuoco, e se di ferro o di veleno. E finalmente non si può da noi sapere in che luogo habbiamo a morire, se in letto o fuori, se in casa o nella strada, se in mare o in terra e se nella patria o in altri paesi. Percioché, chi mai non si partì di sua casa, è poi morto in strane contrade, chi non fu mai nella guerra e non hebbe mai nemici, si è visto morire di schioppo. Alcuni mangiando si sono affogati con una passa et altri si sono strangolati con un pelo bevendo. Certi, caminando per un bel piano, sono cascati e si hanno fiaccato il collo. Molti sono morti di fuoco nel mezo dell’acqua. Chi sperava campare molti anni [34v] non è venuto a sera. Chi credeva morire vecchio, è morto nel fiore della sua etade. Et alcuni quando pensavano di essere più lontani dal scoglio della morte, allhora appunto ci sono miseramente sdrusciti, faccendo naufragio di mille vani pensieri de’quali andavano carchi. Gli è certo un grandissimo errore, il confidarsi in alcun modo della vita, percioché lo stame di che ella è intessuta è troppo fievole et al spesso e facilmente viene a essere tronco nel mezo. Come si ritruova nella scrittura: Praecisa est velut a texente vita mea, dum adhuc ordirer, succidit me . Per il che ogniuno si deve forzare di essere sempre nel Signore. Percioché in ogni luogo [35r], a ogni modo e di ogni tempo che alcuno viene a morire, esso è certo di dover essere beato e muore contentissimo et alegrissimo. La lontananza del luogo non lo spaventa, l’atrocità del modo non lo affligge e la importunità del tempo non lo conturba. Ma fuori di ogni noioso pensiero e franco di ogni dolore non muore, ma se riposa nel soavissimo grembo del Signore. Con ciò sia cosa che la morte di quelli che muoiono in lui non è totalmente morte, ma fine di morte e principio di vita. Percioché morendo in lui si vince la morte e si passa alla felice vita. Sì come l’habbiamo nella sua dottrina: Amen, amen dico vobis, quia qui verbum meum audit et credit ei qui misit me, habet vitam aeternam et in iudicium non venit [35v], sed transit a morte in vitam . E già nella scrittura non è chiamata propriamente morte, ma sogno. Il salvatore volendo risuscitare quella fanciulla disse: Non est mortua sed dormit . Et il medesimo disse di Lazaro: Lazarus amicus noster dormit, sed vado ut a somno excitem eum . E Gioppe similmente: Ecce in pulverem dormiam , etc. E lo evangelista parlando delli santi risuscitati, quando CRISTO rese lo spirito sopra la croce, dice: Et multa corpora sanctorum, qui dormierant, surrexerunt . Parlando di Stefano morente fra li sassi, disse: Obdormivit in Domino . E Paolo scrivendo alli Tessalonicensi delli morti nel Signore diceva: Fratres nolumus vos ignorare de dor-[36r]mientibus . E Cristostomo: Mors christianis est somnus . Gli è chiamata sogno, percioché il sogno gli è imagine di morte. E sì come la imagine non è il medesimo che è lo imaginato, così la morte nel signore non è morte, ma imagine e somiglianza di morte. Percioché chi muore nel Signore, muore nella imagine e nella apparenza solamente, cioè muore il corpo per certo tempo e l’anima è sempre viva di vita beata. Et al fine sarà ancora viva con il corpo gloriosamente, il che non avviene a colui il quale muore di fuori del Signore. Percioché muore già il corpo per certo tempo, ma la sua anima sempre vive de infelicissima vita, se pur si può chiamare vita, et in tale infelicità, anzi in [36v] maggiore sarà con il corpo dopo il novissimo giorno in eterno. Talché quella è propriamente morte come viene sempre detta dalla scrittura. Gli è detta sogno la morte nel Signore, percioché sì come il sogno è il riposo e la quiete delle patite fatiche e degli havuti travagli del giorno, così il morire nel Signore gli è il riposo e la quiete generale e perpetua delle stenti e degli affanni di tutti li giorni. Questo è il piu soave sogno di tutti li sogni, questo è il più quieto riposo e la più riposata quiete dell’huomo. Questa è la più dolce e la più soave cosa che si possa gustare e la migliore che si possa fare da tutti, il morire nel Signore. Però David si lamentava di [37r] non giungervi presto: Heu mihi quia incolatus meus prolongatus est . E Paolo lo desiderava tanto caldamente. Cupio dissolvi et esse cum CHRISTO . Ma chi non desiderarebbe una cosa così ottima. Passare da luoghi strani alla vera patria, dalla terra al cielo, dalla valle delle miserie al seno di Abramo, dal pericolosissimo pelago al sicurissimo porto, dalla soggectione, che ha il corpo, alle stelle, alla signoria di esse, dalle tentationi degli Angioli reprobi alla consolatione degli eletti, dal commertio de’ peccatori alla conversatione de’ santi, da mezo la battaglia al trionfo? Et insieme scambiare le cose instabili con le stabilissime, le noiose con le dilettevoli, le false con le vere, le transito-[37v]rie con le perpetue e le cattive con le perfette? Non è dunque meraviglia, se tanti huomini e tante donne che hora sono spiriti gloriosi, lasciate le ricchezze, dispregiate le dignità, deposte le grandezze et abandonato il mondo. sono corsi volentieri a martirii per fare questo passaggio e questo cambio, e se sono stati più alegri morendo nelli tormenti che li Romani Imperadori trionfando nel Campidoglio. Aborrisca dunque la morte il Giudeo, il Pagano e l’ostinato che morendo abissano al fuoco, alli vermi, alle tenebre, alli pianti, alle pene, al baratro delle miserie. Et il vero cristiano habbiala cara, ché morendo passa alla luce, alli canti, alli piaceri [38r], alla gloria, alla vera Beatitudine, alla quale piaccia a esso Signore di condurne per sua gratia.
IL FINE.