Dedica a Dunin-Wolski
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Allo ILL[USTRISSI]MO E R[EVERENDISSI]MO Monsignore
Pietro Dunin Volski Vescovo
Plocense
Agostino Cesareo Romano
ANCORACHÉ io sia certissimo quanto in V[ostra] S[ignoria] Ill[ustrissima] ogni vertù risplenda e quanto ella sia appieno delle sacre lettere capace, nelle quali cosa alcuna non gli è oscura, ma chiara et aperta, non però ho voluto restare di indrizzarle questa mia operetta spirituale, molto conveniente alle degne qualità sue, per l’alto soggetto di che ella tratta, la quale, sì come in apparenza è molto picciola cosa, così in effetto contiene di tutte la maggiore, chiaro mostrando il sommo Bene, la Beatitudine e Felicità no-[1v] [p.2] stra che da’ savi del Mondo non fu mai così apertamente intesa. Gli è ben vero che non è Filosofo alcuno, il quale non sappia che la Felicità consiste nello acquistare e fruire il sommo Bene che tutti concedono essere uno solo et immutabile, ma qual sia, dove e quando si acquisti ne erano così dubbiosi e così fattamente discordavano fra loro che santo Agostino scrive Marco Varrone haverne annoverate duecento e più opinioni. Hor tutto ciò in questo nuovo libretto viene con tanta certezza dimostrato, che non pur gli altri Filosofi, ma Aristotele e Platone istesso, leggendolo si arossiriano di haverne mai scritto: l’uno, avvedendosi de’ suoi gravi errori; l’altro, scorgendo in breve con chiarezza raccolto [2r] [p.3] quello che egli in varii luoghi appena oscuramente disperse. Aristotele volse che il sommo Bene fosse l’attione della vertù dell’animo, accompagnata da bene del corpo, da ricchezza, da honori, da amici, da prosperità de’ propinqui, e finalmente che a questa sua Felicità fossero necessarii tutti li beni esterni. Percioché egli si pensava che ella si dovesse havere in questa vita. Ma chi è colui, che potesse mai acquistare, et a un tempo possedere tante cose? E se pur alcuno venisse finalmente a conseguirle, come potranno lungamente conservarli e ritenersi che ogni una molte volte in poco spacio non si muti, diminoisca, e corrompa? Cosa nel tutto contraria al sommo Bene. Quanto meglio adunque Platone, il quale [2v] [p.4] intese che la Felicità non si aspettasse in questa, ma nell’altra vita. Però la ripose nel participare del primo Bene che gli è DIO, volendo che la Beatitudine sia il fuggire da queste cose corporee e divenire simile a DIO. Ma egli, havendo solamente la natura per guida, non puote più chiaro isprimerla o mostrarne più ispedita via da pervenirvi né ancor noi lo potriamo in modo alcuno, se non fossimo amaestrati da DIO istesso per GIESÙ CRISTO Suo Figliolo. Talché hora, per celeste dottrina, veramente sappiamo che l’anima nostra, quanto per mezo della morte si spoglia e diparte dal corpo, non può godere la Felicità inanti, che ella, quasi oro nel fuoco, sia purgata da ogni macchia di vitii [3r] [p.5] e riposta nel numero delle anime beate, dovendo nello estremo fine di questo mondo ripigliare il corpo, del quale fu già vestita; perché sì come fu compagno delle buone operationi, così parimente sia partecipe del premio della eterna Felicità di poter guardare e rimirare DIO. Allhora, per quello terreno e fragile corpo, ne risorgerà uno spirituale et immortale; per quello grave caliginoso et oscuro, ne riceverà uno sottile, splendidissimo e celeste. Accioché, essendo prima l’anima fatta simile a DIO e poi il corpo simile all’anima, l’una e l’altro possano essere felici speculando la Faccia scoperta del Signore. Qual bene può essere maggiore? Qual vita più beata? Qual stato più giocondo? Qual più felice? Que-[3v] [p.6] sta è quella Beatitudine, la quale sotto le brevi parole di san Giovanni ci è descritta e di che si tratta in questa operetta, la quale si dona a V.S. Ill. che per via di opere sante e degne, si vede a gran passi caminare a questa santa e vera Beatitudine. M.D.LXXX.